“Pourquoi ne
pouvons-nous demeurer enfermés en nous ? Pourquoi poursuivons-nous
l’expression et la forme, cherchant à nous vider de tout contenu, à organiser
un processus chaotique et rebelle ? Ne serait-il pas plus fécond de nous
abandonner à notre fluidité intérieure, sans souci d’objectivation, nous
bornant à jouir de tous nos bouillonnements, de toutes nos agitations intimes ?"
E. CIORAN
Estate 1998. Apro gli occhi ed inspiro a fondo. Nella
penombra riesco dapprima ad intravedere soltanto la sagoma di Angie, ansimante debolmente
a terra, in cerca di refrigerio attraverso il contatto con il pavimento in
granito. Sono ancora parzialmente abbacinato a causa di piccole macchie evanescenti
sulla retina, frammenti ipnagogici in rapida dissolvenza. I confini degli oggetti
sono labili, fragili, come procedessero fuori dalla loro quidditas
o non vi avessero ancora avuto accesso. In ogni caso, non ci sarebbe niente da
osservare, eccezion fatta per due mosche che si librano nell’aria, colte in una
caotica danza rituale che mi cattura per un breve istante. Mi alzo indolente, e
mi avvicino verso la feritoia socchiusa della persiana. La visione dell’esterno
rivela uno scenario quasi metafisico: il mondo appare come siderato, catturato
dalla canicola di agosto, e la sua atmosfera di sogno lascia – movimento paradossale
della coscienza – che le cose si staglino immote, pietrificate dal dèmone meridiano.
A breve l’arrivo della Giuliana, una sorta di zia a cui sono molto legato, rianimerà
gli oggetti essenziati, ridotti a simulacri silenti. Il suo corpo, carne sostanziata
da sapienza contadina, restituirà una dimensione temporale all’esperienza mediante
l’imposizione di una liturgia che mi è cara. Mi siederò accanto a lei sullo
scalino della porta e coglierò uno ad uno i baccelli da terra; incidendone il
fianco molle lascerò che il tesoro custodito di fagioli verdi possa salire alla
luce, pronto per essere sversato nella ciotola. Stoico ribelle, anticipo già il
piacere che mi darà la lenta opera di sgusciamento e separazione, stando
attento a circoscrivere l’azione ai soli fagioli. Dall’esterno mi scoprirei infatti
impegnato nell’eludere quelle radichette carnose che legano il fagiolo al suo
tegumento: una loro eventuale lesione rappresenterebbe un ostacolo sulla via
della precisione formale che non posso, né voglio, tollerare. Da fuori, un
bagliore. La luce solare, rutilante e dorata, magnifica il giallo ferace dei limoni
penduli e, di colpo, come per contrasto, mi rimanda al giallore svilito, quasi insalubre,
itterico, di una mela scorta poc’anzi sul tavolo. E mi sovvengo di un gioco
solitario che pratico da qualche tempo: prendo un termine consueto, univoco nel
significato, – generalmente “mela” – e lo ripeto decine e decine di volte con
tono salmodiante finché il termine non mi si mostra nella sua natura di
convenzione linguistica. Perché “mela” e non “pera”? Cosa significa, poi, “mela”
di per sé? Contiene qualcosa della croccantezza della mela, della sua sapidità,
della sua rotondità, del suo giallo mansueto? Ammetto di non saperlo. Chissà
soprattutto se qualcuno lo sa? La mamma, forse. O magari è una domanda che
nessuno si è mai posto: – e se fossi io, il primo? Non riesco a predire alcuna
conseguenza per ciò, ed invero non so proprio cosa pensarne di tutta questa
vicenda. Quel che rimane al termine di questo bizzarro processo linguistico-alchemico
è soltanto un caput mortuum sonoro, il guscio vuoto di una parola che,
per qualche momento ancora, è ridotta a flatus vocis, afflosciantesi su
se stessa come un tessuto privato di sostegno. D’altra parte, è ancora presto
per fare domande, tanto più per formulare le risposte. Intrappolato nell’immediatezza,
non conosco alcuna angoscia esistenziale. Per adesso lascio che la vita mi inondi,
mi traversi da parte a parte, come una cornucopia che riversi su di me la sua
abbondanza, innalzandomi ad uno stato pleromatico di conchiusa perfezione.
Nessun commento:
Posta un commento